«Inseguendo l’ombra, il tempo invecchia in fretta»
Se ne stava lì, con la moneta in mano, guardando la cabina telefonica. Indeciso, fra il dire e il fare. Chiamare qualcuno dopo tre anni che non lo senti, e di mattina presto, poi, mica è cosa facile: bisogna avere bene in mente quello che si deve dire, bisogna impostare bene il discorso, la professoressa in classe lo diceva sempre: se uno imposta bene il discorso è salvo, anche se si esprime male. Sicuro.
Senti, sono tornato, sono qui all’ospedale, no, io sto benissimo, o meglio, benissimo non sto, è che questi tre anni si sono rincalcati uno sull’altro come se fossero un giorno solo, anzi, una notte sola, lo so che non mi spiego, cerco di spiegarmi meglio, pensa alle bottiglie di plastica, quelle dell’acqua minerale, la bottiglia ha un senso finché è piena d’acqua, ma quando l’hai bevuta la puoi accartocciare su se stessa e poi la butti via, mi è successo così, mi si è accartocciato il tempo, e anche un po’ le vertebre, se così posso dire, lo so che salto di palo in frasca ma non so esprimermi meglio, abbi pazienza.
Magari però prima di entrare in argomento ci vorrebbe un codice, pensava, qualcosa che indicasse la complicità di un tempo, tipo parola d’ordine. Pensò: mano mano piazza di qui passò una lepre pazza. Sì, avrebbe capito. E poi avrebbe detto: lo so bene che non si può svegliare uno a quest’ora dopo che non lo si chiama da tre anni, ma il fatto è che mi ero dato un po’ alla macchia. Mano mano piazza di qui passò una lepre pazza. Mi ero messo in testa di scrivere un romanzo, sai, un grosso romanzo, quello che tutti si aspettano, prima o poi tutti quanti lo aspettano il romanzo, perché certo, dicono, i racconti sono splendidi, e anche quei due libri di divagazioni, e persino il finto diario è un testo di prim’ordine, non c’è dubbio, ma il romanzo, quando ce lo scrive un vero romanzo?, sono tutti fissati col romanzo, editori e critici e tutti, e così mi ci ero fissato anche io, e per scrivere il romanzo che tutti vogliono da te, che sarà il tuo capolavoro, capisci che ci vuole l’atmosfera giusta, e il posto giusto, e il posto giusto bisogna andarlo a cercare chissà dove, perché dove ci si trova non è mai il posto giusto, e così mi ero dato alla macchia a cercare il posto giusto per scrivere il capolavoro, mi spiego?
Mano mano piazza di qui passò una lepre pazza. Sta morendo mia zia. La mia, non la tua. Ma non è tanto per questo che ti telefono, è che in realtà volevo leggerti almeno un brano del romanzo che ho scritto in questi tre anni di silenzio affinché tu abbia un’idea dell’impegno che ci ho messo, sono certo che capirai perché non mi sono fatto più, sei pronto? Dice.
Se ne stava lì, con la moneta in mano, guardando la cabina telefonica. Sì alzò, per andare a telefonare, o almeno ci provò. Rimase a mezz’aria, bloccato, come il giorno prima alzandosi dal letto, o meglio provando ad alzarsi dal letto, la solita lama di rasoio gli era penetrata nella schiena, di nuovo, trapassandolo. Colonna infame.
Due voci stavano venendo verso di lui, due voci allegre, tipo un cinguettio, come dei passerotti che si dicano qualcosa. Una donna in là con gli anni spingeva una bambina su una carrozzella. Quando furono vicine a lui la bambina disse qualcosa, la sua era un’affermazione, lo capì dal tono. Aveva una voce gioiosa, piena di vita, come quando la vita, attraverso la voce, afferma se stessa, caparbia. Disse: ma questa è la cosa più bella del mondo! E nel dirla sorrise.
La cosa più bella del mondo. Lo aveva detto una bambina calva trascinata in carrozzella da un’infermiera. Lei sapeva quale era la cosa più bella del mondo. Lui invece non lo sapeva. Alla sua età, con tutto quello che aveva visto e conosciuto, non sapeva cosa fosse la cosa più bella del mondo.
Non lo sapeva.
Lascia un commento